Traduttore della prima edizione de L’Évangile tel qu’il m’a été révélé che si è diffusa dalla seconda metà degli anni 70 fino a tutto il 2016, Félix Sauvage era un anziano signore francese, che agli inizi degli anni settanta del secolo scorso venne in Italia per alcuni giorni. Qualunque fosse il motivo del suo breve soggiorno italiano, fu in quella occasione che egli ebbe modo di conoscere l’Opera di Maria Valtorta. Sentì subito l’impulso di doverla tradurre in francese, la sua lingua.
Tornato in Francia, si mise al lavoro e nello stesso tempo scrisse a noi per informarci del suo intento e per avere la nostra approvazione. Forse ci inviò anche un saggio della traduzione. Certo è che volle rassicurarci sulla sua preparazione culturale confidandoci di avere studiato filosofia e teologia “più di un abate”, di aver trascorso la vita insegnando e di essere stato per molti anni professore in un seminario di vocazioni adulte. Di lui ci facemmo l’idea di un uomo maturo e libero, celibe per scelta, quasi un consacrato. Siamo rimasti convinti di aver colto nel segno, anche se della sua vita non abbiamo mai saputo più di quanto ho appena detto.
Il suo lavoro di traduzione dell’Opera valtortiana procedeva con speditezza. Certamente vi si dedicava a tempo pieno. Cominciò a spedirne una parte. Era scritta a mano, il che giustificava la sua preoccupazione che il manoscritto, esemplare unico, non andasse smarrito nella spedizione. Non volle affidare altro al servizio postale, ma continuava a tenerci al corrente sui progressi del lavoro e ci interpellava per qualche difficoltà da superare. Quando, dopo alcuni anni, la traduzione fu ultimata, egli chiese che noi andassimo di persona a ritirarla in Francia.
Ora non ricordo come e con chi trascorremmo il giorno di Natale dell’anno 1976. La sera di quello stesso giorno, questo è sicuro, io e te eravamo alla Stazione Termini di Roma, dove salimmo sul “Palatino”, così si chiamava il treno Roma-Parigi. La mattina del giorno dopo, a Parigi, nella stessa stazione ferroviaria di arrivo prendemmo un treno per Rouen, in Normandia. Su quel treno, comportandoci da provincialetti italiani, tirammo fuori un paio di sfilatini imbottiti da sgranocchiare, ma lo sguardo sorpreso dei compagni di viaggio, pochi per fortuna, rischiò di farceli andare di traverso.
Ci ricomponemmo da persone civili nell’Hôtel-de-Dieppe, a Rouen, la città del martirio di Giovanna d’Arco. Dopo esserci sistemati uscimmo dall’albergo per una visita alla città, comprendendo nel nostro giro la piazza in cui fu consumato il supplizio della Pulzella d’Orléans e dove si stavano gettando le fondamenta per la costruzione di un tempio in sua memoria.
L’indomani, 27 dicembre, festa di san Giovanni evangelista, dovevamo prendere l’autobus di linea per Pont-Audemer. Al tassista che di primo mattino venne a prelevarci in albergo avrei dovuto dire: “A la gare routière”, ma mi imbrogliai e dissi: “A la route gatière”. Entrambi scoppiammo a ridere. Naturalmente egli aveva capito che doveva portarci alla stazione degli autobus. La raggiungemmo percorrendo in taxi le strade della città nordica ancora immersa nel buio della notte, ma già formicolante di gente poiché erano, forse, le otto del mattino.
Poco più tardi viaggiavamo sulla corriera in una campagna innevata. Arrivati a Pont-Audemer, ci dirigemmo all’ospizio chiamato “Albatros”, dove Félix Sauvage si era ritirato da qualche tempo. Egli ci attendeva nella camera n. 58, un ambiente spazioso che gli assicurava una buona ospitalità per i suoi ultimi anni di vita. La sua figura, capelli bianchi e occhi chiari, era come l’avevamo sempre immaginata, dolce e dignitosa. Nulla da patteggiare con lui, non un accordo da formalizzare, tutto già stabilito in perfetta sintonia di sentimenti. Sistemammo in valigia il manoscritto francese. Con la mia inseparabile “kodak” scattai un paio di foto per ricordo. La breve visita si concluse con le ultime raccomandazioni e con un abbraccio.
Mentre, con il nostro bagaglio, ci allontanavamo camminando sotto radi fiocchi di neve nel prato antistante l’ospizio “Albatros”, egli dall’alto, dietro i vetri della finestra della camera n. 58, ci salutava con la mano. Una scena emblematica. L’abbiamo sempre ricordata con tenerezza ed ora, mentre la rivivo e tu non sei qui con me, mi fa ancor più intenerire di commozione.
(Tratto da Lettera a Claudia di Emilio Pisani)