mons. Pier Giacomo De Niccolò in occasione del Cinquantenario della morte di Maria Valtorta in compagnia di p. Gabriele Alessandrini e Emilio Pisani

Mons. Pier Giacomo De Nicolò si è spento

(foto: Mons. Pier Giacomo De Nicolò, padre Gabriele Alessandrini, Priore della Basilica SS. Annunziata di Firenze, e Emilio Pisani nel giorno delle celebrazioni per il Cinquantenario della Morte di Maria Valtorta.)

Il giorno 3 aprile 2021, nel silenzio del Sabato Santo, si è spento all’età di 92 anni Mons. Pier Giacomo De Nicolò, Arcivescovo Nunzio Apostolico. Le esequie sono state celebrate martedì 6 aprile nella Basilica Vaticana dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Egli era il maggiore di tre fratelli vescovi.
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Celebrate in San Pietro dal cardinale segretario di Stato

Le esequie del nunzio Pier Giacomo De Nicolò

È stato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin a celebrare, nella mattina di martedì 6 aprile, nella basilica Vaticana, le esequie del nunzio apostolico Pier Giacomo De Nicolò, arcivescovo titolare di Martana, morto il giorno 3 all’età di novantadue anni.

Primogenito di otto fratelli, i primi tre dei quali sacerdoti divenuti vescovi, il compianto presule si è spento nel Sabato santo, come accaduto nel 2020 al secondo di essi, Mariano.

Pier Giacomo era nato a Cattolica, in diocesi di Rimini, l’11 marzo 1929, e aveva frequentato il Pontificio seminario romano maggiore e la Pontificia università Lateranense. Ordinato presbitero il 12 aprile 1952, era laureato in teologia e in Utroque iure. Entrato alla Pontificia accademia ecclesiastica nel 1956, aveva svolto il servizio diplomatico in Segreteria di stato, Sezione per i Rapporti con gli Stati, nelle rappresentanze pontificie in Germania, in Svizzera e in Portogallo, quindi di nuovo in Segreteria di Stato. Il 14 agosto 1984 da Giovanni Paolo II era stato eletto alla Chiesa titolare di Martana con titolo personale arcivescovo, e nominato al contempo nunzio apostolico in Costa Rica. Aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il 20 ottobre dello stesso anno nella basilica Vaticana dal cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, conconsacranti l’arcivescovo sostituto Eduardo Martinéz Somalo e il vescovo di Rimini e San Marino Montefeltro, monsignor Giovanni Locatelli. L’11 febbraio 1993 era divenuto rappresentante pontificio in Siria. Trasferito, sempre come nunzio apostolico, in Svizzera e Liechtenstein il 21 gennaio 1999, aveva rinunciato all’incarico, per raggiunti limiti d’età, l’8 settembre 2004.

(da “L”Osservatore Romano”, martedì 6 aprile 2021)

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Monsignor De Nicolò ha onorato della sua amicizia i coniugi Emilio e Claudia Pisani, editori di Maria Valtorta, fino ad avere avuto la delicatezza di voler celebrare le esequie di Claudia, morta prematuramente il 7 ottobre 2012.

Precedentemente, nel mese di ottobre 2011, Mons. De Nicolò presiedette a Firenze, nella Basilica della Ss. Annunziata, le celebrazioni per il cinquantenario della morte di Maria Valtorta, un evento di cui è ancora disponibile, a ricordo, una bella pubblicazione curata dalla Fondazione Erede. Questa l’omelia pronunciata per l’occasione:

omelia di Mons. Pier Giacomo De Nicolò nel cinquantenaro della morte di Maria Valtorta

Carissimi fedeli ed amici.

La nostra risposta docile e umile all’impulso coinvolgente dello Spirito del Signore ci ha sospinti oggi qui, in questa gloriosa Basilica della SS.ma Annunziata, da secoli cuore mariano di Firenze, per approfondire nella preghiera la nostra vocazione cristiana. La felice occasione ci è offerta dal 50° anniversario della nascita al Cielo di Maria Valtorta, la cui nascosta sofferta oblazione allo Sposo Divino, portata a perfetto compimento durante decenni, ha recato a tante persone frutti di terrena ed eterna salvezza.

La Parola di Dio, liturgicamente or ora proclamata e sempre attuale, è per noi oggi, anche se fu enunciata in un contesto storico diverso. Adesso interpella noi e ci chiama alla conversione del cuore, all’interiore trasfigurazione.

L’oracolo di Dio, contenuto della lettura iniziale (Is 45,1.4-6) si rivolge, per la prima volta nella storia del popolo eletto, ad un re straniero che viene chiamato “Unto”, cioè Cristo, Messia. Yahweh lo elegge facendolo entrare in qualche modo nella serie della dinastia davidica, ritenuta invalicabile per uno straniero. La situazione storica è quella degli ultimi anni della schiavitù babilonese e quindi dell’attesa della liberazione: tale gioioso evento ebbe come primo attore diretto Ciro, il vittorioso re persiano, ormai dominatore incontrastato dell’intero oriente medio.

L’elezione di Ciro fa riferimento a Israele e per questo l’oracolo che lo riguarda è situato in un oracolo per Israele. Il popolo eletto è al centro della storia della salvezza, ma non è una barriera-limite. Fuori di tale centro Dio sceglie e guida altri che non lo conoscono, indicando così che solo Lui dirige la storia, rivelandosi al tempo stesso a tutte le nazioni come unico Dio. Il motivo dell’intervento di Dio è il riconoscimento che Egli esige: “Onde tu sappia che Io sono Yahweh, che ti chiamo per nome, il Dio di Israele” (v.3).

L’oracolo intende affermare anzitutto, contro ogni ambiguità, che è Dio a scegliere Israele e Ciro; non sono essi a scegliere Yahweh. L’elezione e quindi l’adozione sono atti di sola grazia, di amore misericordioso: “Per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca” (v.4). Ciro come Israele sono strumenti che non vengono scelti per il loro intrinseco valore: “Ti renderò spedito nell’agire, anche se tu non mi conosci” (v.5). Si tratta di un’importante e ripetuta sottolineatura.

L’altro elemento essenziale dell’oracolo è la finalità dell’elezione e cioè la chiamata ad un impegno “missionario” che ha come scopo la conversione del mondo, cioè il riconoscimento di Yahweh come unico Dio da parte di tutte le nazioni: “Perché sappiano dall’oriente fino all’occidente che non esiste dio fuori di me. Io sono il Signore e non v’è alcun altro” (v.6).

Israele è al centro del piano di Dio; ad esso servono i re pagani anche senza averne coscienza. Lo scopo ultimo delle imprese vittoriose di Ciro è la manifestazione dell’unico Dio e quindi la conversione di tutte le genti al monoteismo. L’oracolo dischiude il velo sul piano divino e trinitario di salvezza universale che si realizzerà con il Mistero Pasquale del Figlio Unigenito.

Dio è uno, provvidente, ordinatore della storia: Israele lo scoprì sperimentalmente nelle proprie vicende, grazie allo Spirito di Dio che si manifestava anzitutto attraverso i profeti. Ora a noi, che viviamo nei tempi messianici di piena effusione dello Spirito, è concesso – se lo imploriamo con fede perseverante – un intuito molto più lucido per poter discernere l’azione divina persino nei più piccoli particolari della nostra storia personale, ed in modo peculiare di quella di coloro che l’infinita Misericordia celeste ha insignito di specialissimi doni, per il bene di tutto il Popolo di Dio.

Anche l’inizio della Prima Lettera ai Tessalonicesi (1,1-5) ci offre elementi validi per la nostra riflessione orante. Paolo loda i Tessalonicesi per la vitalità della loro Chiesa che si distingue per la pratica assidua delle virtù teologali, cioè della fede, della speranza e della carità. La fede nel Signore Gesù li ha condotti ad una carità operosa, ad un amore che si dà agli altri senza misurare la fatica. Quanto alla speranza costante in Gesù Cristo nostro Signore, Paolo ne ha ricevuto la prova e l’esempio allorché i credenti tessalonicesi hanno affrontato senza esitazioni l’ostilità della popolazione pagana.

Essi hanno corrisposto alla grazia e quindi all’Amore di Dio, che ha dimostrato così di averli eletti: “Fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da Lui” (v.4). San Paolo continua: “Il nostro Vangelo, infatti, non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione” (v.5).

L’elezione divina di quei cristiani risulta evidente perché la predicazione di Paolo, e quindi la chiamata alla fede, è stata accompagnata da grazie straordinarie, da carismi, dalla potenza dello Spirito Santo, dalla forza persuasiva della parola. Paolo non si riferisce qui ad eventi miracolosi propriamente detti, ma essenzialmente alla presenza dello Spirito Santo, che mediante favori eccezionali conferisce all’annuncio evangelico, e quindi alla nostra testimonianza, autorità, capacità di convincere, forza di penetrare i cuori.

I carismi, infatti, sono doni speciali che evidenziano la presenza dello Spirito Santo. Sono dati a individui o a gruppi per il bene della Chiesa e del mondo (cf. 1 Cor 12; LG 10-12) e devono essere animati dalla carità. Il Catechismo della Chiesa Cattolica – che cito in riassunto – si esprime in maniera chiara in proposito (799 e ss.):

“Straordinari, o semplici e umili, i carismi sono grazie dello Spirito Santo che hanno un’utilità ecclesiale, ordinati come sono all’edificazione della Chiesa, al bene degli uomini ed alle necessità del mondo. Devono essere accolti con riconoscenza: sono una meravigliosa ricchezza di grazia per la vitalità apostolica e per la santità di tutto il Corpo di Cristo. Siano esercitati in piena conformità agli autentici impulsi dello Spirito Santo, cioè secondo la carità, vera misura dei carismi. Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, ai quali spetta specialmente non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” (LG 12).

Senza esaltazioni indebite, senza vane curiosità, senza morbosa ricerca del sensazionale – cui si sottende sempre una fede immatura – siamo chiamati a riconoscere con animo umile e grato quei doni speciali che la Misericordia di Dio elargisce a persone da Lui scelte, in vista del bene di tutta la Chiesa e di quanti potranno farvi parte, proprio attratti da una presenza dello Spirito Santo, eccezionalmente evidente e conquidente.

Ed ora un breve accenno alla pericope evangelica (Mt 22,15-21). La domanda rivolta a Gesù è dettata da ipocrisia e da livore accanito. Quello che si cerca è mettere a tacere Gesù o mediante l’autorità romana o squalificandolo di fronte al popolo. La risposta di Gesù è divina e quindi soffusa di infinita sapienza, non senza uno sfondo di fine ironia: “Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quello che è di Dio”. Gesù non discute sulla legittimità del potere di Cesare evidenziato dalla moneta, come pure dall’iscrizione in essa inserita e che circondava l’effigie dell’imperatore Tiberio: ‘Divus et Pontifex Maximus’: affermazione blasfema per un israelita. Si trattava, peraltro, di una realtà politica terrestre, cui non era dato sottrarsi. Ciò che importa è che la possibilità di dare a Dio quanto Gli spetta resti sempre salvaguardata. Gesù aveva insegnato con insistenza assidua che si deve cercare anzitutto Dio e il suo Regno. Di fronte a ciò, ogni altra istanza si presenta secondaria.

Gesù era stato richiesto del suo parere sul tributo, non sui diritti di Dio. Egli, peraltro, non tralascia di sottolineare tale realtà fondamentale, assegnandole il posto eminente che le compete, dal momento che essa abbraccia l’intera vicenda dell’uomo. Egli mette in risalto i diritti di Dio senza toccare quelli dell’imperatore: solo Dio deve essere amato dall’uomo con tutto il cuore.

Lezione chiara e sempre attuale che ci induce ad un esame veridico di coscienza. Le realtà terrestri, le situazioni sociali e politiche, il mondo della famiglia e del lavoro richiedono il nostro impegno valido e retto, ma tutto ciò va vissuto con totale abbandono all’Amore provvidente di Dio, nella coscienza che solo in Lui possiamo raggiungere la pienezza dell’esistere. In Dio viviamo, ci muoviamo ed esistiamo: apparteniamo totalmente al suo Amore fedele. Una tale appartenenza integrale, un tale vertice di affidamento raggiunge vette inaudite e umanamente impensabili in chi si offre vittima di amore, unendosi all’oblazione redentrice di Cristo, per la salvezza dei fratelli.

Nello svolgere le riflessioni suddette, alla luce dello Spirito Santo – che sempre ci è donato, se richiesto con serena e perseverante umiltà – il nostro pensiero riandava spontaneamente alla persona di Maria Valtorta, ripercorrendo il suo cammino esistenziale.

In esso i tratti della pedagogia divina rivolta al raggiungimento, da parte della creatura, di una piena comunione vitale col suo Signore, sono particolarmente eloquenti: strumento, inizialmente privo di intrinseco valore sufficiente per un compito di portata tanto elevata, viene eletto gratuitamente per una missione di salvezza redentrice che supera di gran lunga le sole possibilità umane; Maria risponde alla chiamata con l’esercizio eroico delle virtù teologali che le consente di oltrepassare la notte oscura della purificazione, rendendola al tempo stesso atta a ricevere, per il bene dei fratelli, particolari doni. Essi, peraltro, sono accompagnati da una crescente e definitiva identificazione con la Croce di Cristo, sotto l’impulso di un amore autentico, intriso incessantemente di dolore, per unirsi all’opera redentrice del suo Gesù.

Esaminare le tappe della vita di questa donna, ricca di coerenza, di coraggio, di fermezza, di costanza e prudenza, vittima nascosta nel silenzio e nell’incomprensione, non è compito di questo momento. Notiamo soltanto che le sue doti naturali non possono spiegare quanto ella ha compiuto con una cultura piuttosto modesta e senza alcun mezzo adeguato di consultazione. La sua luce in ogni tappa fu sempre la Fede; in ogni difficoltà e dolore non venne mai meno la Speranza e l’abbandono; la molla interiore della sua vitalità ascetica e della sua vita mistica di unione col Signore fu una Carità che trasfigurò ogni sentimento ed aspirazione umana.

Maria raggiunse un grado eroico di confidenza in Dio, quella confidenza dell’amante che sola può aprire il Cuore dell’Amato desideroso di far scendere le sue grazie nel cuore dell’uomo. Inizialmente anche lei era angustiata da sollecitudini umane, che denunciavano l’insoddisfazione di un’anima che il mondo non sazia. Oltrepassato questo stadio, divenne tutta del Signore ed anche sulla Croce assaporò la felicità, perché ormai cosciente di avere Chi l’amava di un amore assoluto da lei sempre agognato: l’Amore infinito del suo Dio, del suo Sposo, del suo Gesù.

Divenne così lo “strumento”, il “mezzo”, la “penna del Signore”, come lei stessa amava definirsi. D’altra parte, volle rimanere nascosta e sconosciuta in vita – segno, questo, inconfondibile di autenticità del carisma – e soffrì indicibilmente quando le ingenue imprudenze del suo direttore spirituale avrebbero potuto svelarla al mondo. Ella si sentiva tutta del suo Signore, a Lui riservava ogni lode e voleva ogni giorno “rendere a Dio quel che è di Dio” e cioè tutta se stessa.

Circa la sua opera di scrittrice mistica, è evidente che il giudizio definitivo spetta alla Chiesa, anche se in casi del genere l’esame da parte dei competenti organismi ecclesiali concerne in grande prevalenza la santità della vita: esempi in tal senso sono ben noti. Ed è su tale santità esistenziale che si è soffermata la nostra riflessione orante.

Comunque, l’opera di Maria Valtorta – da cui sono assenti errori dogmatici e morali, come rilevato da più parti – conosce da circa mezzo secolo una vasta e silenziosa diffusione tra i fedeli (circa trenta le traduzioni in lingue straniere) di ogni classe sociale del mondo intero, e ciò senza particolare pubblicità. La sublimità, l’elevatezza e la sapienza dei contenuti hanno suscitato numerosissimi frutti di bene e di conversione; anche persone immerse nel turbinio del mondo e lontane dalla fede cristiana, ma peraltro bramose di raggiungere solide certezze, si sono aperte all’incontro con l’Assoluto, col Dio-Amore, e vi hanno trovato piena conferma dell’insegnamento bimillenario della Chiesa.

La società odierna, in genere, sta vivendo una profonda crisi di fede. Sembra di essere tornati alle origini dell’uomo: la tentazione di costruire un mondo senza Dio, e quindi senza futuro, è grande. Il Santo Padre non cessa di ripeterlo: “Viviamo in un tempo caratterizzato da un relativismo che penetra tutti gli ambienti della vita e che si fa battagliero contro i credenti, cioè contro quanti affermano di sapere dove si trova la Verità ed il senso della vita”. Per questo i credenti sono chiamati ad offrire una testimonianza più autentica e credibile, divenendo luce del mondo.

Al raggiungimento di questo altissimo fine, l’esempio ammirevole di Maria Valtorta ha dato e potrà dare sempre più in futuro un sostegno valido; se ancora alcune incertezze e fraintendimenti nebulosi si librano nel cielo valtortiano, formuliamo tutti insieme noi qui presenti il pressante auspicio che essi siano presto dissipati. La nostra preghiera, in questa Eucaristia, sia diretta anche a tale scopo: sia una preghiera fervida e fiduciosa, e ciò “ad maiorem Dei gloriam”.

Amen.

Daniel

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