UN RICORDO DI MARTA DICIOTTI

Ricordo di Marta Diciotti estratto dal volume Fotobiografia

Il 23 aprile dell’anno 1943 era il venerdì santo. Verso mezzogiorno, dalla sua camera d’inferma nella casa di Viareggio, Maria Valtorta chiamò Marta, affaccendata in cucina. Mostrando nella mano un foglietto sul quale aveva scritto qualcosa, le chiese di andare dal Padre Migliorini, suo confessore, a dirgli che lei aveva bisogno di parlargli.

Marta disse tra sé: “Cosa posso dire a quella di là?”, dovendo giustificare alla mamma di Maria la sua sortita di casa a quell’ora insolita. Trovò una “bubbola” per la severa signora Iside e, infilato il cappotto sulla vestaglietta, scappò via andando diritta verso il Convento S. Andrea.

Il Padre Migliorini, che era il Priore, stava rientrando in convento quando Marta lo raggiunse e gli trasmise la richiesta di Maria. Egli pensò al peggio: le aveva portato la Comunione all’alba, perché stava male. Marta lo rassicurò che l’inferma non si era aggravata, tanto che non occorreva affrettarsi. E tornò via svelta.

Egli non si fece attendere a casa Valtorta, dove la sua visita fu giustificata come casuale alla signora Iside. Entrò nella camera di Maria e si trattenne in confidente colloquio con lei.

* * *

Cinquant’anni dopo. Il 23 aprile 1993 è ancora un venerdì, il successivo alla domenica in albis. Emilio Pisani e Claudia sua moglie sono con Marta Diciotti (82 anni compiuti, piccola di statura e vivace) che fa loro rivivere l’evento. In una Viareggio assolata e ignara vanno con lei alla Messa delle ore 9 nella Basilica di S. Andrea, sempre officiata dai Servi di Maria. Usciti dalla chiesa, svoltano sull’angolo e si fermano dinanzi all’ingresso del convento, che ha due o tre scalini.

Marta rievoca. Sembra di vedere l’anziano frate, alto e pacato, che sta per spingere la porta mentre alle spalle lo raggiunge la voce di Marta, che sbuca dalla stradina di fronte. È tanto vivo il ricordo di ogni particolare che lei ripete, come incredula: “Cinquant’anni!…”. Soltanto non le torna alla mente la “bubbola” inventata per la signora Iside, e quasi non si rassegna a quel vuoto.

Verso mezzogiorno, in casa, Marta interrompe le sue faccende e dice: “Fu a quest’ora. Si va a dire un Padre, Ave e Gloria in camera di Maria?”.

Marta Diciotti, la donna che ha assistito Maria Valtorta dal 1935 fino alla morte di lei

MARTA DICIOTTI
1910 – 2001

Alla Messa funebre per Marta Diciotti — il pomeriggio di martedì 6 febbraio 2001, in San Paolino a Viareggio — viene letto il brano del Vangelo che riporta il dialogo tra Gesù e Marta di Betania dopo la morte di Lazzaro. La donna si lamenta con il Signore: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”; e conferma la propria fede in Lui, che si è proclamato “Resurrezione e Vita” (Gv 11, 17-27).

Da sempre la Marta di Viareggio ha richiamato alla memoria l’omonima di Betania: tutte e due legate ad una Maria, tutte e due attive accanto ad una contemplativa Maria. Più del suddetto brano giovanneo, si adatterebbe ad un parallelo l’episodio che presenta insieme le sorelle Marta e Maria (Lc 10, 38-42). La prima, “tutta presa dai molti servizi”, prende l’altra per una perditempo, perché se ne sta assorta ad ascoltare Gesù, che invece la difende: “si è scelta la parte migliore”, rimproverando l’indaffarata Marta: “tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose”.

Dalla Betania dei tempi di Gesù alla Viareggio dei nostri tempi, in una tranquilla casa della media borghesia. Maria è un’inferma che scrive, Marta è la donna che deve badare alle faccende domestiche. Dopo quel 23 aprile 1943 accade più volte che Maria dalla sua camera chiami ancora Marta mentre questa è in cucina tra una pentola e il fornello. Marta accorre, pensando ad una necessità dell’inferma, ma trova Maria che, con il quaderno aperto sulle ginocchia, vuole leggerle un episodio evangelico appena finito di scrivere. Marta, asciugandosi le mani nel grembiule, ascolta benevola, ma freme. Nella sua povera testa deve passare lo stesso pensiero della Marta antica.

Marta Diciotti in età giovanile

Aver fede significa credere. Chi crede ha fiducia ed è fedele.

Che la Marta di Betania fosse una donna di fede ce lo ha mostrato il racconto della resurrezione di Lazzaro, nel Vangelo di Giovanni. Della sua fede conosciamo il punto di arrivo, fermamente proclamato, non quello di partenza. Non sappiamo se fu una fede innata, come accolta con naturalezza, oppure una fede conquistata e affermata dopo aver vinto naturali resistenze. Al contrario, di Marta Diciotti conosciamo l’inizio di un cammino spirituale, il cui approdo è rimasto come celato nel segreto della sua anima.

Era una giovane provata e ribelle quando entrò nella casa Valtorta senza sospettare che vi sarebbe rimasta per sempre. Da qualche anno aveva perduto la mamma, suo unico affetto. Il papà le era morto quando lei era una bimba di quattro anni. Intelligente ma dotata solo di senso pratico, vedeva il lato negativo della sofferenza, che rendeva vulnerabile la fede assorbita a fatica dalla madre, una santa donna provata dalla vedovanza. Nella casa Valtorta aveva trovato un’altra santa, ma era in un letto, malata a vita. Marta non capiva la strana giustizia di un Dio che compensa la santità con il dolore. Eppure rimase.

Maria Valtorta, che a Dio offriva tutta se stessa per il bene delle anime, comprese di dover prodigare la cura dell’anima a quella giovane che era venuta a darle assistenza per il corpo. Con la pazienza di Maria, che non si arrendeva alle crisi di rifiuto della Marta, e con la fedeltà di Marta, che non sapeva abbandonare Maria, maturarono gli anni della loro vita in comune.

Maria e Marta si contrapponevano e si integravano servendosi a vicenda. Ma il servizio di Maria, essendo di natura spirituale, era noto solo a Dio, mentre quello di Marta figurava davanti agli uomini, oltre ad acquistare meriti presso Dio.

Aver fede significa credere. Chi crede ha fiducia ed è fedele. La fede di Marta Diciotti si esprimeva nella fedeltà a Maria Valtorta, che poteva contare su di lei.

Anche su Padre Migliorini si poteva contare: era considerato il Lazzaro di quella Betania dove Maria e Marta erano ormai sorelle. Alla mansione di guida spirituale di Maria egli aggiunse quella di servire gli scritti che la sua assistita aveva cominciato a produrre a getto continuo. Li trascriveva a macchina, sottoponendosi ad una fatica che Gesù stesso avrebbe un giorno definito superiore a quella della scrittrice inferma. Leggendoli, però, se ne infervorò tanto che si mise a distri-buirli, rompendo la consegna del riserbo. Un’imprudenza, la sua, che procurò i primi guai all’Opera e incrinò i rapporti tra lui e Maria, che poteva fidarsi solo di Marta.

Certamente tutti dovevano poter usufruire della “rivelazione” che Maria Valtorta stava ricevendo per noi con il suo sacrificio. Ma divulgarla prima del tempo e senza criterio portava ad esporla a quelle curiosità per il soprannaturale che non predispongono il favore della Chiesa. Se l’attitudine alle cose dello spirito dava al Padre Migliorini la misura del valore degli Scritti, era il senso pratico di Marta a far capire le esigenze della Scrittrice, che voleva il nascondimento e aborriva il fanatismo.

Non mancarono altre delusioni nella travagliata missione di Maria Valtorta, che al lavoro fisico dello scrivere in uno stato di infermità cronica doveva unire la sofferenza per le defezioni e i rifiuti. Nella solitudine in cui ricadeva c’era, però, sempre Marta, dall’anima informe ma fedele. Maria arrivò a considerarla come un’altra se stessa. Più che sorella, dunque.

Toccò a Marta l’eredità degli Scritti, alla morte di Maria.

Succeduta Marta a Maria, restava da assicurare una successione a Marta.

Intanto l’Opera, regolarmente stampata e pubblicata, si diffondeva nel territorio nazionale e raggiungeva con le traduzioni ogni parte del globo. Certuni si domandavano a chi sarebbe andata la proprietà degli Scritti valtortiani quando Marta sarebbe venuta a mancare. Ci fu uno che glielo chiese senza mezzi termini; e lei, pronta, rispose: “Ho forse la faccia di una che deve morire?”.

La prontezza di spirito le era congeniale e Marta doveva esercitarla, insieme con la circospezione e la diffidenza, per rintuzzare gli attacchi all’Opera e per ripararla dalle curiosità inutili e dalle insidie.

Un giorno suonarono alla porta di casa due sacerdoti. Uno di essi, già parroco in un piccolo centro del pistoiese, faceva parlare di sé perché si era proclamato Papa per mandato divino e contava su un certo seguito di fedeli, pur essendo scomunicato. Era imponente e austero nella veste talare. Marta, piccola di statura, se lo vide dinanzi e ne rimase quasi intimorita. Ma quando il sacerdote le spiegò di essere venuto a ritirare i quaderni autografi di Maria Valtorta per un ordine della Madonna, lei gli obiettò senza scomporsi: “La Madonna, quest’ordine deve darlo a me”.

I visitatori erano quasi sempre lettori dell’Opera. Sostavano nella camera di Maria per una preghiera e una firma sul registro, ma spesso, avvinti dalla vivacità di Marta e incoraggiati dalla sua disponibilità (seppe però mettere alla porta una giornalista invadente), si intrattenevano ad interrogarla sulla sua vita con Maria. Se poi qualcuno accennava a lasciare un’offerta in denaro, Marta faceva un balzo come se avessero tentato di aggredirla. Brusca di modi così come era salda nei princìpi.

Una vita con Maria Valtorta” è il titolo del libro di memorie di Marta Diciotti. Non lo ha scritto lei. Marta raccontava a ruota libera al prof. Albo Centoni, che annotava, registrava, ordinava, completava, abbelliva e infine sottoponeva a lei il testo per accertarsi che tutto rispondesse a verità. Con lo stesso sistema il Centoni raccolse altre memorie-testimonianze di Marta, che in parte sono state inserite nel libro “Ricordi di donne che conobbero Maria Valtorta”. Marta, comunque, non amava scrivere, a differenza di Maria, che scriveva tutto di proprio pugno, anche le lettere, con la disinvoltura e l’abilità della scrittrice nata. Anche in questo erano due sorelle di segno opposto.

Pur non essendo incolta, Marta faceva una tale fatica a tenere la penna da destare un senso di pena in chi la vedeva arrancare con la mano per una firma o per uno scritto che dovesse per forza essere autografo. Si destreggiava bene, invece, con la macchina da scrivere (mai usata da Maria) sulla quale stendeva le sue lettere battendo i tasti con i soli indici delle due mani: una portatile che ora si conserva tra i cimeli valtortiani. Non è accertato che usasse già questa stessa macchina quando le toccava di trascrivere pagine autografe dell’Opera (giacché non fu soltanto il Padre Migliorini a farlo).

Con Maria Valtorta visse dal 1935, l’anno del suo ingresso nella casa, al 1961, quando Maria morì. Rimasta sola, abitò ancora nella casa Valtorta per altri trentacinque anni, fino al 19 ottobre 1996, quando ebbe la frattura di un femore. Dopo l’intervento chirurgico, ben riuscito, e la degenza in ospedale e in una casa di cura, passò ad un pensionato per anziani, dove ha trascorso gli ultimi quattro anni in un progressivo indebolimento fisico e mentale.

Lei stessa non avrebbe mai pensato di poter oltrepassare il traguardo dei novant’anni di età. Già in una lettera degli anni Cinquanta, Maria Valtorta dava notizia di un ricovero ospedaliero di Marta che destava qualche apprensione. Ebbe poi due infarti, nel corso dei decenni successivi alla morte di Maria, e fu sottoposta ad una isterectomia per un tumore maligno. Più di una volta ha preso la sacra unzione degli infermi, anche quando si chiamava “estrema” perché si dava solo ai morenti. Padre Berti (personaggio-chiave delle vicende valtortiane, quasi suo coetaneo e deceduto vent’anni prima di lei) diceva che Marta non sarebbe stata longeva perché aveva il “collo corto”. A dispetto del collo, la sua vita (con Maria e per Maria) è stata lunga.

Marta ha avuto il tempo per godere dei frutti del sacrificio di Maria, pur continuando ad assaporare, ogni tanto, il veleno delle ostilità. E si rammaricava che Maria avesse potuto gustare solo questo.

Il cuore di Marta non resse quando uscì il libro ingiurioso di Pier Angelo Gramaglia, che falsava o sporcava le verità con palese malanimo. L’autore si definiva sacerdote e docente in una facoltà teologica (ma per davvero?) e la casa editrice, che aveva pubblicato il suo libro, era annoverata tra quelle cattoliche (ma con quale criterio?).

Per fortuna faceva da antidoto il nome di Gabriele M. Allegra, dotto e santo missionario francescano (oggi è Beato) che aveva tradotto in cinese l’intera Bibbia. Pagine di diario, lettere a parenti e confratelli, e perfino un piccolo ma esauriente trattato, conosciuti postumi, esponevano il pensiero di Padre Allegra sugli scritti e sulla persona di Maria Valtorta: con ammirazione e sapienza. Marta invocò il suo aiuto quando ebbe l’infarto e segnalò poi la grazia alla Postulazione che ne curava la causa di Beatificazione.

Le contraddizioni in seno alla Chiesa non entravano nella logica di Marta. Inutile ricordarle che Gesù stesso si era posto come “segno di contraddizione”. Era inconciliabile, per lei, il bene che l’Opera faceva con il male che l’Opera riceveva. Si intuiva che il suo pensiero tornava, per una strana associazione, alle virtù di Maria, che sarebbe stato giusto compensare con un po’ di felicità sulla terra.

Sull’anima di Maria Valtorta avevano inciso in special modo le sofferenze spirituali e morali, ma dall’orizzonte di Marta emergevano quelle di natura materiale, da lei condivise con una partecipazione più piena. Privazioni e disagi di vario genere erano stati causati soprattutto dalle malattie e dalla guerra. D’altronde, la venuta di Marta in quella casa aveva coinciso con la morte del padre di Maria e con la fine dell’agiatezza che il sottufficiale di cavalleria Giuseppe Valtorta (in pensione dal 1913) aveva procurato alla sua famigliola.

Maria aveva preconizzato a Marta i frutti dell’Opera e se ne era andata prima di poterne beneficiare. Intanto, per la vocazione di un giovane editore, che in seguito avrebbe sacrificato ogni altro interesse, la sua Opera aveva preso le vie del mondo e cominciava a lanciare da ogni parte i segnali del consenso. Non mancavano mai gli strali, come abbiamo visto, che però sorvolavano isolati sull’onda delle accoglienze favorevoli, dei riconoscimenti entusiasti, perfino delle conversioni.

Marta poteva sentirsene quasi inorgoglita, giacché anche lei aveva fatto la sua parte. Alle soddisfazioni morali vedeva associarsi la possibilità di appagare un desiderio, di realizzare un piccolo sogno, di permettersi una di quelle comodità che a nessuno vengono precluse. Se cedette a qualche lusso, lo fece perché pensava di averne finalmente il diritto. Ma la sua anima custodiva la lezione vivente di Maria.

Avvenne che in un certo periodo andava, ogni settimana, a spazzare la chiesa parrocchiale insieme con altre donne che, come lei, si erano offerte volontariamente. La chiesa di San Paolino è grande e molto frequentata. A lungo andare, cominciò a sentire il peso di quel lavoro e qualcuno le consigliò di lasciarlo, perché le poteva nuocere alla salute. Marta, di solito spicciativa, dette una risposta che invece rivelava la capacità di saper meditare. “Lo faccio per tenermi umile”, disse.

Marta Diciotti

Marta pregava, anche se preferiva far pregare. Quando vide che cresceva il numero di coloro che le chiedevano d’intercedere presso la sua Maria, perché intercedesse presso Dio per i loro bisogni materiali e spirituali, pensò bene di delegare tutto ai Padri Serviti della Ss. Annunziata di Firenze, dove nel 1973 erano stati traslati da Viareggio i Resti mortali di Maria. Fu in tal modo stabilito che ogni mese si celebrasse una Santa Messa sulla tomba di Maria Valtorta, secondo le intenzioni dei suoi lettori. La pia consuetudine è stata conservata: la Messa è tuttora fissata al giorno 12, a ricordo del 12 ottobre 1961, data della morte.

Marta era puntualissima nell’inviare a Firenze l’offerta mensile con vaglia postale, di cui conservava religiosamente la ricevuta. Quando l’editore Pisani volle, per un anno, versare lui l’obolo concentrandolo in un’unica soluzione, lei se ne risentì, come se l’avessero defraudata di un diritto anziché alleggerita di un dovere. E riprese, l’anno successivo, a mandare la sua offerta ogni mese.

Per sé pregava la mattina, appena alzata. Prendeva un libro di preghiere inzeppato di santini, si sedeva ad un tavolo, inforcava gli occhiali e si metteva a leggere una serie di testi di devozione, forse sempre gli stessi e nello stesso ordine. Diceva di fare le sue “orazioni”, che però avevano un carattere impetratorio, piuttosto che quello di un colloquio d’anima. Non mancavano una speciale preghiera per l’Opera, scritta su un foglietto, e quella “potente” a San Giuda Taddeo, al quale pochi si rivolgono per colpa del suo nome che ricorda quello dell’apostolo traditore: ecco perché, secondo la credenza popolare, è più facile ottenere da lui una grazia.

A parte il candore delle sue pratiche devozionali, Marta era ferma nei princìpi morali ed osservava con fedeltà i precetti della Chiesa. Con un’attenzione, però, rivolta più a se stessa che agli altri. Guai se qualcuno le chiedeva una preghiera in un momento per lei critico o doloroso! In ogni caso, le esigenze sue erano prioritarie. Ma era mai possibile che l’offerta totalizzante di Maria Valtorta non avesse segnato affatto proprio lei, che ne era stata testimone per tanti anni?

Venne quel 19 ottobre 1996, quando un incidente (la caduta con frattura di un femore) avrebbe dato l’ultima svolta alla sua vita. Essendo sola in casa, rimase in terra per un certo tempo. Considerò ogni possibilità di rialzarsi e si rassegnò ad aspettare qualcuno. E pregò. Non soltanto per sé, questa volta. Nella sua mente si presentarono le necessità di alcuni che avrebbero potuto trarre un beneficio da quella prova. Come ci confidò in ospedale (e lo disse una sola volta, perché era gelosa dei propri sentimenti) aveva pensato anche al CEV (il Centro Editoriale Valtortiano) e ad un giovane, padre di famiglia, che era stato colpito da una malattia che non dà scampo.

Non parliamo del CEV, che ha sempre progredito, per grazia di Dio, pur dovendo ogni giorno confrontarsi con preoccupazioni e fatiche. Riguardo a quel giovane, è guarito. Inspiegabilmente, a detta dei medici.

Le conseguenze immediate della caduta, che richiese l’applicazione di una protesi al collo del femore, innervosirono Marta e fecero riaffiorare in lei l’antica ribellione alle avversità. Reagiva male se qualcuno, con la buona intenzione di consolarla, la esortava ad accettare quella disgrazia e ad offrirla al Signore. A ben pensarci, non aveva mai permesso intromissioni negli affari dell’anima sua. Forse si rendeva conto di quanto le costasse seguire l’esempio di Maria Valtorta.

Poi si calmò. Alle persone che andavano escogitando come farla rientrare in casa Valtorta, di cui godeva il diritto di usufrutto dalla morte di Maria, disse di rendersi conto che non avrebbe più potuto abitare in quella casa.

Nel gennaio 1997 entrò nel pensionato che è al piano superiore della Casa di cura Barbantini, nella campagna del Bicchio, a metà strada tra Viareggio e Torre del Lago. Una struttura confortevole, ma isolata e mal servita dai mezzi pubblici. Si diradarono le visite alle quali era abituata. Si era fermato il moto perpetuo della sua vita quotidiana, con le continue sortite di casa per fare la spesa, per andare in chiesa e per qualsiasi altro motivo. Eppure Marta si adattò alle nuove abitudini, tanto da sembrare, a volte, che non volesse essere disturbata in quella segregazione.

Faceva sempre più fatica a camminare e la sua formidabile memoria cominciò ad accusare dei vuoti. Quando non potette più muoversi né parlare, conservò la vivezza dello sguardo, ma non faceva un lamento. Era come se fosse entrata in uno stato di continua meditazione.

Negli ultimi mesi si è aggravata e si è ripresa più volte, fino a spegnersi dolcemente nelle prime ore del mattino di lunedì 5 febbraio 2001.

Era nata a Lucca il 2 dicembre 1910, figlia unica di Angelo Diciotti e Isolina Alberigi. Era stata sua madre, presentatasi in sogno a Maria Valtorta, che lo racconta nell’Autobiografia, a mettere Marta accanto a Maria.